I molisani nel mondo, oggi

I molisani nel mondo sono una realtà consistente, diffusa, integrata nei paesi di immigrazione.

E’ difficile, però, determinare esattamente il loro numero.

Coloro che, dall’estero, hanno conservato la cittadinanza sono oltre 60.000.

Almeno il doppio sono coloro che, nati in Molise, vivono oggi all’estero.

Con grande approssimazione e considerando la discendenza arrivata ormai alla terza generazione si può parlare di 500 – 600.000 persone.

Un Molise fuori dal Molise che spesso ha rafforzato la presenza degli interessi anche economici della nostra regione all’interno del contesto economico globale.

Un importante esempio è dato dal contributo avuto dai nostri corregionali all’estero nella formazione di un mercato mondiale delle industrie alimentari molisane. E’ una presenza numerosa, quella dei molisani, anche se non uniforme ed omogenea.

Sicuramente l’emigrazione del secondo dopoguerra ha prodotto legami associativi e rapporti più forti con la terra d’origine rispetto a quanto avvenuto per l’emigrazione di inizio Novecento. La stessa regione Molise ha sentito l’esigenza di ricercare i suoi emigrati per poter creare un network di tutti i molisani all’estero. Ha giocato un ruolo importante in questo caso lo sviluppo di reti di comunicazione e telecomunicazione.

Ad ogni modo i molisani nel mondo hanno conservato significative forme di cultura identitaria.

Ciò soprattutto attraverso le Associazioni che hanno permesso all’emigrante di incontrare persone con la stessa origine, la stessa lingua e le medesime tradizioni. Un fattore questo molto importante se si tiene conto che molte volte l’emigrato molisano doveva scontrarsi con un ambiente lontano ed estraneo in cui la diffidenza verso lo straniero impediva l’integrazione tra le persone.

Altro elemento distintivo identitario dei molisani nel mondo è la conservazione di una radicata tradizione religiosa.

La maggior parte delle associazioni che hanno dimensioni comunali porta il nome del santo patrono del paese di origine e vengono onorate le feste religiose come in patria. A tal proposito nominiamo il Cercemaggiore Community Club di Waterbury, Connecticut. Questa associazione nasce da un nutrito gruppo di emigrati cercesi, i quali ogni anno festeggiano la Festa della Madonna della Libera, propria del paese di origine, rispettandone a pieno le tradizioni.

Un ultimo sguardo su un’altra peculiarità dei molisani all’estero: l’alimentazione.

Essa segue i canoni tradizionali dei paesi di origine.

Pasta, olio, vino, preparazione casalinga della salsa, degli insaccati.

Il Natale secondo i canoni tradizionali, la Pasqua con l’agnello, perfino, per finire, la Tavolata di beneficenza in onore di S. Giuseppe il 19 marzo.

 

Il dramma di Marcinelle

8 AGOSTO 1956 ORE 8:20

MARCINELLE
BELGIO

Erano lì già da un po’ di anni i nostri minatori.

In quel posto sperduto della Vallonia, in Belgio, a Charleroi.

Lavoravano nel sobborgo operaio della cittadina chiamato Marcinelle.

Loro, come i tanti italiani presenti nelle miniere di mezza Europa negli anni ’50, erano invogliati dal bisogno e dal governo ad andare a lavorare all’estero.

Il viaggio verso il Belgio era pagato dallo Stato italiano, in virtù del patto bilaterale concluso con il Belgio nel 1946.

L’Italia si impegnava ad avviare 5.000 lavoratori l’anno  nelle miniere belghe.

Il Belgio corrispondeva al nostro Paese una quantità di carbone per le acciaierie.

I minatori vivevano in baracche ricavate dagli alloggi rinvenuti negli ex lager nazisti, venivano sottoposti ad accuratissime e severe visite mediche.

Le condizioni di lavoro erano brutali.

Scendevano in miniera fino a 1350 mt. di profondità per estrarre il carbone. La temperatura raggiungeva i 42 °C.

Le gallerie erano alte 3 metri e larghe 3 in media. Si era costretti a lavorare, però, anche in cunicoli ben più angusti, ai limiti della sopportabilità umana.

Il materiale utilizzato veniva spostato con carrelli trainati da cavalli e asini. Il carbone veniva portato alla superficie con un ascensore a quattro piani.

Per scavare le gallerie veniva usata la dinamite. Attraverso il buco praticato poteva passare il gas letale (grisù). La lampada a olio, simbolo dei minatori, segnalava loro, con lo spostamento della fiamma, la presenza o l’assenza del gas.

Molti di loro, dopo una vita di durissimo lavoro, spesso facendo i pendolari tra l’Italia, dove erano rimaste le famiglie, e il luogo di lavoro, oppure dopo essersi definitivamente stabiliti in Belgio, in Svizzera, in Germania, morivano prematuramente, sovente alle soglie dell’agognata pensione, per malattie respiratorie, silicosi perlopiù e neoplasie legate al lavoro in miniera effettuato per anni senza alcuna protezione.

Quella mattina dell’8 agosto del 1956 a Marcinelle, nella miniera di carbone Bois du Cazier ebbe luogo uno dei più terribili incidenti minerari della storia recente.

Alle 8:10 un macchinista addetto ad una delle gabbie del pozzo di estrazione si accorse che essa si era improvvisamente arrestata e non rispondeva più ai comandi.

Il carrello aveva tranciato i fili della corrente elettrica e della condotta dell’olio.

Il corto circuito provocò un incendio che si propagò rapidamente ai cantieri sotterranei.

Dei 275 lavoratori presenti in miniera solo 13 riuscirono a salvarsi, gli altri andarono incontro ad una fine orrenda.

Morirono asfissiati, non avendo in dotazione neanche le maschere antigas.

Le ricerche e i soccorsi andarono avanti per giorni, ma senza risultati.

262 i morti, 136 gli italiani, 7 i molisani.

Fu aperto un processo per accertare le responsabilità, ma i dirigenti della società mineraria vennero assolti.

La colpa fu attribuita all’addetto alla manovra del carrello.

I lavori nella miniera di Marcinelle ripresero nell’aprile del 1957 e continuarono ancora per altri 10 anni e fino al 9 dicembre del 1967 quando venne definitivamente chiusa.

L’ultima miniera della Vallonia, quella di Roton, continuò a lavorare fina al 30 settembre 1984 grazie anche ad una forte presenza di manodopera italiana.

I morti di Marcinelle non furono purtroppo gli unici italiani periti in quegli anni nelle miniere del Belgio.

Complessivamente dal 1947 al 1963 furono 867 i nostri connazionali che pagarono con la vita le proibitive condizioni di lavoro all’interno delle miniere.

7 furono i molisani che l’8 agosto del 1956 morirono nella miniera di Bois du Cazier

–       CASCIATO FELICE  – S. ANGELO DEL PESCO

–       CICORA FRANCESCO – S. GIULIANO DI PUGLIA 1908

–       GRANATA FRANCESCO – FERRAZZANO 1916

–       GRANATA MICHELE – FERRAZZANO 1913

–       MOLITERNO MICHELE – FERRAZZANO 1917

–       NARDACCHIONE PASQUALE – S.GIULIANO DEL SANNIO 1930

–       PALMIERI LIBERATO – BUSSO 1920.

Due di essi, Granata Francesco e Michele erano fratelli.

La salma di Francesco Cicora, invece, coma quella di tanti altri, non è stata mai ritrovata.

I suoi cari devono accontentarsi di portargli dei fiori su una delle tante lapidi presenti nel cimitero di Marcinelle che recano la dicitura “INCONNU”(sconosciuto).

UN CAMMINO NELLA MEMORIA
Un lungo e certosino lavoro nel ricordo collettivo della tragedia di Marcinelle ha portato a realizzare negli anni 2001 e 2002 un tributo importante alla memoria dei caduti molisani.

Il Primo Maggio del 2001, grazie all’interessamento delle istituzioni e di tanti molisani comuni, in particolare dei Signori Anna Di Nardo (Console Regionale dei Maestri del Lavoro del Molise) e Giuseppe Ruffo, il Governo ha conferito ai sette minatori nostri corregionali scomparsi a Charleroi la Stella al Merito del Lavoro.

Nel 2002 il Consiglio dei Ministri ha dedicato l’8 agosto di ogni anno al ricordo del sacrificio del lavoro italiano nel mondo.

Nello stesso anno, proprio l’8 agosto, grazie al Progetto Marcinelle portato avanti dal Consolato Regionale del Molise dei Maestri del Lavoro e dalla Federazione Maestri del Lavoro d’Italia, patrocinato dal Ministero degli Italiani nel mondo, è stata donata al Museo della Memoria che si trova proprio nella miniera una campana fusa dalla Pontificia Fonderai Marinelli di Agnone.

La campana porta il nome di Maria Mater Orphanorum, in ricordo dei 406 orfani dei minatori.

Alle 8:10 di ogni anni, l’8 agosto, la campana suona 262 rintocchi per i minatori deceduti, altri 10 per i caduti di tutte le miniere nel mondo, infine suona a distesa in onore delle vedove e dei figli per richiamare le genti a meditare su quanto accaduto 61 anni fa a Marcinelle.

 

L’emigrazione dal Molise

 L’emigrazione è l’elemento più omogeneo della storia recente del Molise e ne ha profondamente contrassegnato l’evoluzione sociale.

Si possono agevolmente distinguere tre periodi all’interno del flusso migratorio della regione, come per quello dell’intera nazione:

  1. 1870/1890
  2. 1900/1915
  3. 1945/1970 – 80.

Come dato di insieme si può affermare che, in base ai numeri ufficiali, disponibili dal 1876 in poi, gli espatri dal Molise fino agli anni ’70 – ’80 del ‘900, sono quantizzabili  in circa 600.000.

Un dato che, però, è limitato, poiché non tiene conto degli espatri avvenuti prima del 1876, delle numerosissime partenze clandestine e delle visite temporanee a parenti già emigrati che venivano poi trasformate in installazioni permanenti.

La metà degli esodi ufficiali è avvenuta durante la prima grande ondata migratoria (1870 – 1915), un terzo nel periodo che va dal 1945 al 1970, il resto nell’intervallo tra le due guerre mondiali e dagli anni ’70 in poi.Sempre in via generale, l’emigrazione molisana si connota come manifestazione precoce rispetto alle altre aree italiane coinvolte, diffusa in maniera capillare su tutto il territorio regionale, originale nelle sue variegate e concorrenti motivazioni.

Riguardo a queste ultime appare utile soffermarsi su alcuni elementi che più di altri hanno contribuito alla “diaspora”.

Innanzitutto vi era nei molisani di fine ‘800 una già forte predisposizione alla “pendolarità” data dalla pratica secolare della transumanza.

Non era perciò inconsueto, anzi al contrario era la regola, che gli uomini fossero lontani da casa per procurarsi il sostentamento per vivere.

La situazione economica e sociale già difficile del Molise subì un notevole aggravamento con l’unificazione del Regno d’Italia che accentuò l’arretratezza della sua struttura basata essenzialmente sul sistema silvo – pastorale. Un sistema che entrò in crisi nella fase della “piemontesizzazione” del sud Italia.

Il background fattuale e culturale della regione, organizzata istituzionalmente nell’unica Provincia di Campobasso, si scontrò con scelte legislative che quando vi furono, si rivelarono sbagliate e lontano dalla peculiarità molisana e del Mezzogiorno d’Italia.

Tutti elementi che videro accrescere nei molisani la determinazione di compiere l’unica scelta che a loro appariva possibile: la fuga dal bisogno e la costruzione in terre lontane di un futuro migliore.

Un altro elemento caratterizzante dell’esodo molisano, riscontrabile soprattutto nel primo periodo analizzato è costituito dalla scelta dell’abbandono per motivazioni politiche.

Tra i primi ad emigrare furono i contadini, poi gli artigiani ed alcuni professionisti.

Alla fine dell’800, spentosi il fenomeno del brigantaggio e dopo l’azione di repressione del nuovo Stato borghese, si formarono soprattutto nell’Alto Molise oltre che nelle aree confinanti con la Puglia, le prime correnti socialiste che si integrarono con le rivendicazioni sociali già presenti.

Agnone, non a caso, è considerata la patria dei pionieri dell’emigrazione molisana. Nel 1870 i suoi abitanti furono i primi a partire per l’Argentina. Al contempo la città che ha dato al flusso migratorio il maggior contributo quantitativo.

Attualmente Agnone ha 6.000 abitanti e si calcola che circa 20.000 agnonesi siano sparsi per il mondo.

Anche per questi motivi, oltre che per la compattezza della comunità agnonese all’estero la Prima Conferenza Regionale dell’Emigrazione si è svolta proprio ad Agnone nel 1986.

Tornando ai motivi politici dell’espatrio, questi connotarono la migrazione molisana come percorso di inserimento dei nostri conterranei nei flussi del mercato mondiale del lavoro e nel filone della ricerca di condizioni di vita più adeguate al mondo moderno.

Modelli culturali e sociali, questi, che approderanno, poi, nella terza ondata migratoria del secondo dopoguerra.

 

In treno verso l’Europa. Dal 1945 in poi.

Se i bastimenti furono il simbolo dell’emigrazione dalla fine dell’ottocento e fino alla prima guerra mondiale, la terza grande ondata migratoria che ebbe inizio nel secondo dopoguerra vide nel treno il suo emblema di viaggio.

La terra promessa si spostò sul continente europeo, anche perché i Paesi d’oltreoceano iniziarono una politica di limitazione degli ingressi di immigrati.

Il treno e la valigia di cartone per espatriare da un Paese da ricostruire, devastato dalla guerra, senza solide infrastrutture e senza materie prime, soprattutto.

Per questo motivo dagli anni Quaranta in poi gli emigranti italiani, anche tramite l’intervento regolatore del governo, che vedeva nell’emigrazione una risorsa fondamentale per la ricostruzione, scelsero il continente europeo e le sue miniere per garantirsi un avvenire migliore.

La Francia, la Germania, il Belgio.

Queste nazioni, con la lenta ripresa economica, dopo aver impiegato tutta la manodopera disponibile sul mercato del lavoro interno, aprirono le porte ai lavoratori degli altri Stati. Mai come nel dopoguerra l’emigrazione di massa diventa una politica voluta, sollecitata e fortemente controllata dallo Stato in quanto valida soluzione a numerose questioni sia di politica interna che esterna. In Italia era forte il bisogno di placare la crescente tensione sociale dovuta principalmente alla povertà, collocando la forza lavoro italiana in un mercato ricco di domanda. Questo sbocco fu trovato grazie agli accordi bilaterali, vero e proprio scambio tra uomini e carbone. L’equazione pensata dal governo era semplice: forze lavoro giovani, sane, produttive in cambio di materie prime, di cui il Bel Paese scarseggiava. Così vennero conclusi accordi con i maggiori paesi d’emigrazione quale l’Argentina, l’Australia, ma in modo particolare con i vicini paesi europei, il Belgio, la Francia, la Svizzera: tutti si assicuravano la loro quota controllata di lavoratori[1]. In questo modo l’Italia, che usciva perdente dal conflitto, poteva recuperare prestigio internazionale, vantandosi di aver contribuito, grazie alle enormi masse di forza lavoro messe a disposizione, alla ricostruzione dell’Europa liberata.  Solamente in due anni, tra il 1946 e il 1947, partirono per le miniere della Francia e del Belgio, quasi 84mila italiani, la maggior parte provenienti dal Veneto, dalla Campania e dalle regioni del Sud. L’incredibile flusso di “rimesse” di denaro inviate in Italia da questo esercito di lavoratori, costituiva una ricchezza irrinunciabile che permise all’Italia di pagare i debiti internazionali, di acquistare materie prime e avviare la rinascita economica. Il rovescio della medaglia era costituito da un’incapacità delle classi dirigenti italiane di progettare un piano per risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana.

Invece di collocare le proprie forze lavoro in una pianificazione nazionale dell’economia, si preferì la via tradizionale dell’emigrazione.

Così mentre in Italia l’emigrazione provocava degli squilibri demografici e disfunzioni nelle economie regionali, in altri paesi, grazie all’apporto lavorativo degli italiani, venivano riequilibrate tutte le attività economiche della vita collettiva.

I migranti italiani nel secondo dopoguerra hanno dato un contributo fondamentale alla costruzione dello stato sociale in Europa e allo sviluppo delle solidarietà interculturali, grazie al loro impegno sindacale, ai loro sacrifici di sangue e di sudore.

 

[1] Per maggiori informazioni visitare il sito http://www.cestim.it/ con approfondimento “Panorama storico dell’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra. Le migrazioni verso Belgio, Francia e Germania.”