Se i bastimenti furono il simbolo dell’emigrazione dalla fine dell’ottocento e fino alla prima guerra mondiale, la terza grande ondata migratoria che ebbe inizio nel secondo dopoguerra vide nel treno il suo emblema di viaggio.
La terra promessa si spostò sul continente europeo, anche perché i Paesi d’oltreoceano iniziarono una politica di limitazione degli ingressi di immigrati.
Il treno e la valigia di cartone per espatriare da un Paese da ricostruire, devastato dalla guerra, senza solide infrastrutture e senza materie prime, soprattutto.
Per questo motivo dagli anni Quaranta in poi gli emigranti italiani, anche tramite l’intervento regolatore del governo, che vedeva nell’emigrazione una risorsa fondamentale per la ricostruzione, scelsero il continente europeo e le sue miniere per garantirsi un avvenire migliore.
La Francia, la Germania, il Belgio.
Queste nazioni, con la lenta ripresa economica, dopo aver impiegato tutta la manodopera disponibile sul mercato del lavoro interno, aprirono le porte ai lavoratori degli altri Stati. Mai come nel dopoguerra l’emigrazione di massa diventa una politica voluta, sollecitata e fortemente controllata dallo Stato in quanto valida soluzione a numerose questioni sia di politica interna che esterna. In Italia era forte il bisogno di placare la crescente tensione sociale dovuta principalmente alla povertà, collocando la forza lavoro italiana in un mercato ricco di domanda. Questo sbocco fu trovato grazie agli accordi bilaterali, vero e proprio scambio tra uomini e carbone. L’equazione pensata dal governo era semplice: forze lavoro giovani, sane, produttive in cambio di materie prime, di cui il Bel Paese scarseggiava. Così vennero conclusi accordi con i maggiori paesi d’emigrazione quale l’Argentina, l’Australia, ma in modo particolare con i vicini paesi europei, il Belgio, la Francia, la Svizzera: tutti si assicuravano la loro quota controllata di lavoratori[1]. In questo modo l’Italia, che usciva perdente dal conflitto, poteva recuperare prestigio internazionale, vantandosi di aver contribuito, grazie alle enormi masse di forza lavoro messe a disposizione, alla ricostruzione dell’Europa liberata. Solamente in due anni, tra il 1946 e il 1947, partirono per le miniere della Francia e del Belgio, quasi 84mila italiani, la maggior parte provenienti dal Veneto, dalla Campania e dalle regioni del Sud. L’incredibile flusso di “rimesse” di denaro inviate in Italia da questo esercito di lavoratori, costituiva una ricchezza irrinunciabile che permise all’Italia di pagare i debiti internazionali, di acquistare materie prime e avviare la rinascita economica. Il rovescio della medaglia era costituito da un’incapacità delle classi dirigenti italiane di progettare un piano per risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana.
Invece di collocare le proprie forze lavoro in una pianificazione nazionale dell’economia, si preferì la via tradizionale dell’emigrazione.
Così mentre in Italia l’emigrazione provocava degli squilibri demografici e disfunzioni nelle economie regionali, in altri paesi, grazie all’apporto lavorativo degli italiani, venivano riequilibrate tutte le attività economiche della vita collettiva.
I migranti italiani nel secondo dopoguerra hanno dato un contributo fondamentale alla costruzione dello stato sociale in Europa e allo sviluppo delle solidarietà interculturali, grazie al loro impegno sindacale, ai loro sacrifici di sangue e di sudore.
[1] Per maggiori informazioni visitare il sito http://www.cestim.it/ con approfondimento “Panorama storico dell’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra. Le migrazioni verso Belgio, Francia e Germania.”