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Breve storia dei personaggi molisani che sono diventati famosi all’estero

L’emigrazione attraverso gli scatti di Lefra (Leonardo Tartaglia)

 

A quattro anni dalla morte torna  prepotentemente tra noi, come solo lui sapeva fare, Leonardo Tartaglia (27 ottobre 1933 –  8 maggio 2013), meglio conosciuto, nella  nostra regione ed in Italia, come LEFRA. Una lunga ed instancabile vita dedicata alla fotografia ed al reportage  fotografico. Il suo rapporto con questa forma espressiva inizia prestissimo, come mostra l’immagine da piccolo, testimonial della mostra, con a tracollo una macchinetta fotografica. Poi, un regalo di una macchinetta fotografica tutta sua il giorno della sua prima comunione. L’amore per questa relativa giovane arte lo avvolgerà e lo accompagnerà per tutta la vita. La macchinetta gli rimarrà a tracollo per sempre. Non si può immaginare Leonardo senza una o più macchinette che pendevano sul suo petto o sui suoi fianchi. Così “bardato“, con una inseparabile valigetta e con un camper, lo si scorgeva ovunque in questa nostra incantata terra. Nelle sedi istituzionali, su un ciglio di una strada, su una scala, su un balcone, sempre in un improbabile equilibrio fisico, pronto ad essere il primo a documentare, attraverso la fotografia, eventi, luoghi e persone. Aiutava a creare il personaggio il suo colorato modo di vestire, la sua propensione alla socializzazione ed il suo spontaneo ed affabile sorriso.

LeonardoTartaglia, però, non era solo un bravo fotografo, come la sua vasta biografia attesta. Apparteneva  a quella eletta schiera  di fotografi molisani (Trombetta, Pilone, Chiodini, De Vito…) che hanno saputo costruire un enorme archivio fotografico e che ci consente oggi di avere una lettura socio-economica-politica- antropologica della società molisana a partire dagli ultimi decenni dell’ottocento e tutto il novecento.

Egli, nei suoi lunghi anni di attività, con le sue innumerevoli iniziative, girando in lungo ed in largo il Molise ha documentato, in modo quasi maniacale, ogni personaggio, ogni luogo, ogni iniziativa di valore culturale che si sono svolte nei nostri centotrentasei Comuni. Non tralasciando mai, ovunque si recava, di recuperare le altre memorie fotografiche di quella comunità, acquisendo sia da privati o dai vecchi fotografi l’archivio del luogo. Questo enorme patrimonio costruito negli anni, con lungimiranza, la Provincia lo ha acquisito mettendolo a disposizione di studiosi e dei molisani.

Ben altra cosa è l’archivio sull’emigrazione che vi proponiamo.

Leonardo, per un ancestrale motivo, che solo un molisano può capire,  non se n’è voluto separare.

Perciò, la Regione, attraverso l’ufficio Rapporti con i Molisani nel Mondo e la Presidenza del Consiglio Regionale, in collaborazione con la  famiglia Tartaglia, ha voluto far conoscere quest’altra parte del patrimonio iconografico dei molisani, visto e documentato da Leonardo.

Per queste ragioni oggi siamo qui con voi. Per  le stesse ragioni oggi ci sentiamo anche di dire di essere riconoscenti e grati a Leonardo, per l’amore, la passione, la professionalità che ha messo per la fotografia e per la gente della sua e nostra terra!

 

Antonio D’Ambrosio

Toquinho

Musicista brasiliano, nasce da una famiglia di origine italiana, il nonno, infatti, era nativo di  Toro in provincia di Campobasso, emigrato in Brasile, con il nome di Antonio Peci Filho.

Lo pseudonimo con il quale è divenuto poi noto al mondo, gli deriva dal diminutivo con cui sua madre lo chiamava quando era un bambino: “meu toquinho de gente”.

Il nome Toqunho gli rimase e si andò ad identificare come uno dei maggiori ed espressivi artisti della musica popolare brasiliana.

Nato a San Paolo del Brasile nel 1946, ha iniziato a studiare la chitarra quando aveva quattordici anni e da quel momento non si è più separato da questo strumento, che gli ha permesso di vivere una brillante carriera, piena di successi e di grandi collaborazioni con altri importanti musicisti.

In particola modo si ricorda Vinicius de Moraes, con il quale incise sedici dischi.

Gli anni settanta lo videro allontanarsi dal Brasile per sfuggire alle pesanti conseguenze del colpo di Stato militare che limitava la libertà di espressione. Assieme a Chico Buarque approdò in Italia che divenne la sua seconda patria. La sua vita, ma anche la sua carriera, infatti, sono ricche di ricordi italiani.

In Italia si è fatto conoscere grazie alla collaborazione con Sergio Endrigo nel 1969, suonando nel disco “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”, realizzato da Endrigo, Vinicius de Moreas e Giuseppe Ungaretti. È questa la sua prima incisione italiana.

Poco dopo, lavora per Ennio Morricone, realizzando il disco “Per un pugno di samba” di Chico Buarque de Hollanda.

Nella sua esperienza italiana non si può nominare il successo ottenuto cantando con Ornella Vanoni. Con lei ha inciso “La voglia, la pazzia, l’incoscienza e l’allegria”.

Il musicista stesso parlando di questa collaborazione, dirà: “Non conosco cantante italiana, che abbia cantato meglio di Onella Vanoni in La voglia, La pazzia, l’incoscienza, l’allegria”.

Nel 1983 esce l’album Acquarello, scritto insieme a Maurizio Fabrizio e Guido Morra.

Il successo è immediato e strepitoso.

Qualche anno dopo, nel 1990, partecipa invece al Festival di Sanremo, cantando in portoghese la canzone di Paola Turci, Ringrazio Dio. Il titolo in portoghese era stato tradotto in “Nas asas de um violão” (sulle ali di una chitarra).

È stato anche protagonista in due tournée con Fred Bongusto, nel 1993 in Italia e nel 1996 in Brasile. Nel 2003 la sua carriera lo porta a lavorare con Grazia Di Michele.

Toquinho è ormai da anni entrato di diritto nella storia della musica popolare brasiliana e non solo. Il suo arpeggio di chitarra acustica non si ferma ad una semplicità musicale, ma si trasforma in un soffio di voce ispirata.

Il musicista affonda le sue radici nella terra brasiliana e ne riporta fedelmente e con grande passione i ritmi e i suoni, dei quali il Brasile ne è ricchissima.

Nel suo “Acquarello” musicale, inoltre, compare qualcosa in più. Non solo rispecchia quello che è il sound brasiliano, ma lo arricchisce con il suo stile, che prende note quasi pop colorandosi con un leggero gusto di jazz.

Questa atmosfera particolare e caratteristica dell’artista si compone quindi di note semplici, che rendono le sue creazioni ancora più apprezzabili al grande pubblico.

In suo onore, nel paese natale dei nonni, Toro, si organizza il Toquinho Toro Festival, che nel 2010 è stato patrocinato dal Ministero per i Beni Culturali e dall’Ambasciata del Brasile a Roma. Un evento che in genere ricade nel mese di Luglio di ogni anno e che attira l’attenzione di molti artisti e di un pubblico vasto e variegato.

In una intervista Toquinho afferma: “l’Italia sarà sempre presente sulla mia agenda lavorativa e su quella dell’affetto”.

La biografia di Toquiho è curata da Joao Carlos Pecci, scrittore molto noto e apprezzato in Brasile, nonché fratello dello stesso musicista.

Altro libro da segnalare è quello di Giancarlo Mei, Canto Latino. Origine, evoluzione e protagonisti della musica popolare del Brasile, con una prefazione di Sergio Bardotto e postfazione di Milton Nascimento, Nuovi Equilibri editore 2004.

Il sito di riferimento è:

http://www.toquinho.com.br/

 

SITOGRAFIA:

 

 

 

 

 

Tony Vaccaro

Nasce negli Stati Uniti a Greensburg (Pennsylvania) il 4 Dicembre del 1922 da una famiglia di emigranti molisani uno tra i maggiori fotografi del mondo,

Tony Vaccaro, nome d’arte di Michelantonio Celestino Onofrio Vaccaro, rientra in Molise all’età di 7 anni, insieme alla madre e la sorella per una visita ai parenti.

La sua vita, però, prende un’improvvisa deviazione e il soggiorno, che doveva essere di pochi giorni a Bonefro, si trasformò in una permanenza di anni nel paesino di origine dei genitori.

La causa scatenante fu la morte improvvisa e oscura prima della madre e poi del padre a poca distanza l’uno dall’altro.

Questo drammatico evento lo terrà fermo nel Molise fino ai 17 anni, quando lo Stato americano lo richiama per il servizio militare.

A Bonefro, pertanto, trascorre l’adolescenza di Tony Vaccaro. Un’esperienza esistenziale  da cui nasce un profondo legame tra lui e la «sua terra» molisana e tra lui e gli uomini di quella terra, segnando non solo la sensibilità dell’uomo, ma anche una parte importante della sua futura produzione artistica.
Vaccaro comincia a interessarsi di fotografia quando frequenta il liceo.  È tra i primi  utilizzare una tecnica fotografica basata sulla velocità di scatto della macchina nel tentativo di cogliere le “reali” e spontanee espressioni dei soggetti.

Nel 1939 torna negli Stati Uniti per adempiere al suo dovere. Tornato nel nuovo mondo si fermerà a New Rochelle (NY), presso parenti, dove frequenta alcuni corsi di studio, tra cui quello di fotografia.

Da questo momento in poi la sua passione e il suo amore verso quest’arte cresceranno sempre di più. Proprio grazie a questa sua inclinazione, chiamato alle armi, ottiene di svolgere nella sua compagnia il ruolo di fotografo.

Un’esperienza forte e crudele che, non solo gli permetterà di accumulare un patrimonio fotografico notevole e di grande valore, ma che lo segnerà a livello personale, facendone il testimone privilegiato dell’atrocità umana.

Con l’US-Army, all’inizio della seconda guerra mondiale, ritorna in Europa.

Lo sbarco in Normandia è il primo evento drammatico che fotograferà, fino ad arrivare alle porte di Berlino liberata.

Due lunghi anni immerso nella crudeltà della guerra immortalata da 8 mila fotogrammi, che lievitano a 20 mila se si prendono in considerazione anche quelli scattati nel 1949, quando lavorava per il Ministero degli Esteri americano a Parigi, e quelle per il giornale delle Forze Armate Americane in Germania “The Stars and Stripes”.

In una lunga intervista rilasciata, Tony afferma a proposito di questo periodo: “Ho visto tanta morte e disperazione durante il conflitto mondiale, e credo che la guerra sia una delle catastrofi umane peggiori; oggi, purtroppo, in tutto il mondo si parla di guerra. Nessun governo nazionale ha mai capito che bisognerebbe istituire un dipartimento della pace e non uno della guerra”.

Una riflessione su quella che è la guerra, in tutte le sue forme, si sente forte nelle sue parole, ma ancor di più nelle sue stesse foto, in quegli scatti sofferti, in quei negativi, che portano con se la strazio di quei momenti.

Successivamente, la carriera di Vaccaro si discosterà dalla crudeltà vissuta fino a questo punto e si dirigerà verso altri temi.

La sua grande esperienza, maturata nel campo della moda, gli permetterà di prendere il volo definitivamente e di conquistare la fama mondiale che tutt’oggi lo caratterizza.

Nel 1963 riceve la Medaglia d’Oro dall’Art Directors’ Club di New York per la migliore fotografia di moda a colori. Tony è il primo fotografo a riprendere una modella di colore.

Collabora con alcune tra le maggiori riviste americane come Flair, Look, Life e Venture e avrà l’occasione di avere davanti al suo obiettivo alcune delle più grandi stelle del cinema, della moda e dell’arte. Tra questi possiamo ricordare Chaplin, Ernst, Peggy Guggenheim, Pollock, Kennedy, Sofia Loren, Anna Magnani, Marcel Marceau, Picasso e tanti altri.

Molti sono anche i riconoscimenti e i premi che comincia a collezionare e ricevere tra cui l’Oscar della fotografia. I libri che diffondono le sue immagini sono 12 e numerose sono le mostre realizzate nei diversi paesi.

Il presidente francese Mittérand gli ha concesso la Legion d’onore.

Con l’Italia e in particolare con il Molise, Tony ha sempre mantenuto vivo un grande affetto e ricordo. Negli anni cinquanta e sessanta soggiorna per lunghi periodi a Roma, da qui torna spesso in Molise per fotografare persone ed aspetti della società contadina, che proprio in quegli anni stava attraversando un periodo di cambiamento e trasformazione.

Nel 2002 torna nella sua Regione di origine per fotografare i paesi colpiti dal terremoto.

In quest’occasione consegna ai cittadini di Bonefro una somma sostanziosa (circa 85mila dollari) per contribuire alla ricostruzione della cittadina post-terremoto. La somma era stata raccolta dall’associazione italo-americana, che lui stesso rappresenta.

La sua permanenza in Italia porta alla realizzazione della mostra “La mia Italia”.

In questa occasione presenta immagini di un’Italia reduce dalla seconda guerra mondiale, una panoramica di quella che è la fase della Ricostruzione. Dal Nord al Sud, casa per casa, anima per anima, i suoi scatti rendono immortale una nuova fase. Dopo tanta crudeltà, l’Italia apre gli occhi sulle macerie, città distrutte, vite spezzate cruentamente, povertà e ferite aperte.

I volti raffigurati esprimono meglio di ogni parola la sofferenza, l’afflizione del momento ma anche una speranza, quella di poter ripartire e ricominciare.

Nel breve saggio che introduce la mostra Italo Zannier descrive lo stile di Vaccaro come “umanista”, lo inserisce quindi nella corrente che ha caratterizzato questo periodo storico e che vede altre personalità di spicco come Donelli, De Biasi, Roiter.

La fotografia umanista nasce in Francia e si caratterizza per la sua grande attenzione nei confronti dell’uomo e della sua vita quotidiana, ritratta con uno stile che è una via di mezzo tra la documentazione e il “realismo magico”. Una ricerca di atmosfere sospese e velatamente surreali, capace di cogliere l’animo umano in un istante e immortalarlo per sempre.

Oltre ad avere ricevuto molti premi e riconoscimenti, le opere di Vaccaro sono presenti in numerose collezioni private e nei più importanti musei del mondo come: il Metropolitan di New York, la George Eastman House di Rochester (NY) e il Centre Pompidou di Parigi.

SITOGRAFIA

 

 

Robert De Niro

Il 17 Agosto del 1943 nasce a New York, Robert De Niro. La sua famiglia può vantare origini variegate e una vena artistica, che sicuramente influenzarono le scelte del giovane Robert.

La madre, Virginia Amiral, aveva origini olandesi e tedesche, il padre, invece era figlio di un immigrato italiano (molisano) e di una irlandese.

Entrambi i genitori erano pittori e si dedicavano alla scultura, per questo motivo si iscrissero anche al Greenwich Village.

Nonostante la passione per l’arte li accomunasse il loro matrimonio non durò a lungo e il giovane Robert si trovò a vivere da solo e a crescere ne quartiere di Little Italy.

Proprio in questi anni di grande formazione nel quartiere italiano per eccellenza, che Robert prese il suo retroterra sentimentale verso l’Italia, conoscendone attraverso gli immigrati, cultura e tradizioni.

L’Attore, infatti, è sempre stato fiero della sua origine italiana, tanto da richiedere il passaporto italiano nel 2006.

Come se non bastasse il comune di Ferrazzano, paese di provenienza del bisnonno, ha iscritto De Niro nelle liste elettorali comunali, consegnandogli anche le chiavi della cittadina.

Dal medesimo comune, anni prima (1887), i bisnonni, Giovanni Di Niro e Angelina, partivano verso gli Stati Uniti in cerca di maggiore fortuna.

Nel momento dell’iscrizione all’anagrafe americana, però, per un errore di trascrizione il cognome cambiò da Di Niro a De Niro.

In paese è stata costituita un’associazione in suo onore da una decina di anni, che organizza tutte le estati un festival cinematografico, che porta il suo nome.

Da piccolo però l’Attore non spiccava per doti di grande socializzazione e comunicazione, anzi era minuto gracile e particolarmente bianco di carnagione, tanto da meritarsi il soprannome di Bobby Milk. La sua infanzia pare sia stata caratterizzata da una profonda solitudine e da una timidezza senza pari.

Il suo interesse per il cinema viene fuori lentamente. A dieci anni debutta in teatro nella parte del Leone, nel regno di Oz e a sedici recita nell’Orso di Cechov.

Inizia, così, a frequentare alcuni corsi di recitazione, tra cui un periodo all’Actors Studio con Stella Adler e Lee Strasberg. In questo periodo debutta sui palcoscenici di off-Brodadway colleziona serate di spettacoli e continuando ad andare a scuola.

Negli anni ’60 sbarca nel cinema grazie alla regia di Brain De Palma, con lui gira “Oggi Sposi”, “Ciao America” e “Hi, Mom!”. In Ciao America  riveste il ruolo da protagonista, ma non ha ancora raggiunto la fama odierna.

L’esordio, a dire il vero, risale al 1965 nel film francese in bianco e nero “Tre camere a Manahattan” di Carnè, dove la protagonista è Annie Girardot e De Niro non compare neanche nei titoli.

La sua carriera, però, comincia a tutti gli effetti nel 1973, quando parte il sodalizio con Martin Scorsese. Grazie a lui, De Niro diventa l’attore cult che tutti conosciamo. Ben 11 sono i film che vedono De Niro diretto dal grande regista.

Con “Mean streets”, dove si vede un giovane De Niro al fianco di Harvey Keitel, Robert si guadagna il premio della National Society of Film Critics come miglior attore non protagonista. Da questo momento in poi comincia la sua carriera da grande attore.

Robert De Niro è, quindi, un attore, un regista e un produttore cinematografico, considerato tra i migliori del mondo, grazie alla sua grande capacità interpretativa e alla sua bravura nel presentare personaggi completamente diversi tra di loro.

Nella sua lunga carriera ha avuto modo di lavorare con i più grandi registi in pellicole di enorme successo, tra cui possiamo ricordare Francis Ford Coppola, il già nominato Martin Scorzese, Elia Kazan, Michael Cimino, Bernardo Bertolucci, Sergio Leone, Terry Gilliam, Roger Corman e Brian De Palma.

Ha ricevuto la candidatura per sei volte all’Oscar, vincendolo in due occasioni, nel 1975 come attore non protagonista e nel 1981.

Tra i personaggi, che ha interpretato, spiccano i ruoli da gangster.

Lo vediamo nei panni del giovane Vito Corleone ne “Il padrino –Parte II”, Noodles in “C’era una volta in America”, Jimmy Conway in “Quei bravi ragazzi”. Ha interpretato anche Al Capone nel film “Gli intoccabili” di Brain De Palma.

Una curiosità nel mondo del cinema è che De Niro e Marlon Brandon sono i due soli attori ad aver vinto il premio Oscar per aver interpretato lo stesso ruolo, Don Vito Corleone nella saga Di Francis Ford Coppola.

De Niro lo vinse per il giovane Vito, Marlon Brando invece per la parte dell’anziano Don Vito, in “ Il padrino”, antecedente all’altro.

Nonostante questi ruoli particolarmente drammatici, non è mai venuta a mancare la sua inclinazione verso la commedia, lo si vede infatti in “Re per una notte e Brazil”, fino a giungere negli anni novanta con la serie di “Terapia e pallottole” e “Ti presento i miei”, interpretando nel primo caso un mafioso in crisi esistenziale e nel secondo il suocero ex agente CIA, che rende la vita impossibile al genero.

Il suo lavoro si è sempre caratterizzato per una ricerca quasi maniacale dello studio dei personaggi che interpretava, un perfezionismo estremo che lo ha sempre portato a documentarsi incessantemente su tutto quello che riguardava il ruolo del suo personaggio. Grazie a questo suo modo di fare è riuscito a dare un volto ai più noti travagliati e complessi personaggi portati sullo schermo.

Ricordiamo solo per fare alcuni esempi, Travis in “Taxi Driver”, il pugile La Motta in “Toro scatenato”, per interpretare un umano e complesso Frankenstein di Kenneth Branangh (1994).

Secondo un sondaggio realizzato in Gran Bretagna dal canale televisivo FilmFour Robert De Niro è il miglior attore di tutti i tempi.

Per i 13.000 telespettatori che hanno votato il camaleontico interprete supera di gran lunga tutti i suoi celebri colleghi come Al Pacino, Kevin Spacey e Jack Nicholson.

Bibliografia:

  • Rosanna Bellitto, Robert De Niro, Esedra, marzo 2001
  • Giorgio Nisini, Robert De Niro, Gremese, 2006.

SITOGRAFIA

Frank Monaco…obiettivo sull’Anima

Frank Monaco è nato a New York il 27 dicembre del 1917, da una famiglia di emigrati molisani, originari di Cantalupo nel Sannio (Isernia).

Ha partecipato alla seconda guerra mondiale, nelle file dell’esercito americano, fino al congedo dovuto ad una ferita alla mano destra.

Dopo avere frequentato corsi di arte e di giornalismo alla New York University, arriva a Roma nel 1950 per ricevere lezioni di arte.

Durante alcune visite in Molise ai parenti materni, scatta alcune foto di contadini molisani che poi fa casualmente vedere al pittore Afro, di cui era diventato amico.

Afro lo indirizza decisamente verso questa nuova strada, che diventa la sua fondamentale attività. Queste foto sono oggi una delle più importanti testimonianze estetiche ed antropologiche della società molisana e meridionale agli inizi degli anni ‘50.

Nel ‘55 si sposta a Londra, dove poco dopo avvia la collaborazione con la rivista cattolica Jubilee, che dura oltre un decennio.

Si lega all’Agenzia “Rex Features” che dai primi anni ‘60 gestisce il suo portafoglio d’immagini. La collaborazione con Jubilee lo porta ad indagare con particolare interesse ed insistenza i luoghi della spiritualità e della sofferenza. Per la sua attività gira il mondo e, in particolare, torna diciotto volte in India, di cui ritrae le manifestazioni della vita sociale e, soprattutto, della vita religiosa. Le sue foto sono state pubblicate in ogni parte del mondo da oltre 450 tra libri e giornali.

I critici che si sono interessati alla sua opera hanno sottolineato la particolare sensibilità che accompagna la sua visione del mondo, il suo realismo rigoroso e gentile, la strutturazione dell’immagine intorno a nuclei di interesse psicologico ed umano, la sua “religiosità” fatta di accettazione e di rispetto per le cose e per gli uomini.

Una selezione delle foto di Frank Monaco è nella collezione permanente del Victoria & Albert Museum. Ha fornito immagini per il libro The Irish di Tom O’ Hanlon e pubblicato They Dwell in Monasteries (1982), The Women of Molise – An Italian Village 1950 (2000), Brothers and Sisters (2001).

Eddie Lang

Il 25 ottobre del 1902 nasce a Philadelphia, Pennsylvania, Salvatore Massaro.

Il padre Domenico Massaro, liutaio molisano, era emigrato in questa città da Monteroduni in cerca di fortuna. Il padre, gli intaglia una mini chitarra da una scatola di sigari, trasmettendogli così sin dalla tenera età l’amore per la musica.

Salvatore, così, cominciò da giovane a studiare il violino e per molti anni restò fedele a questo strumento, imparando le tecniche musicali e coltivando la sua passione per la musica classica.

In seguito volle imparare a suonare anche il banjo e la chitarra. Il suo soprannome, invece, gli deriva dalla passione del padre verso un giocatore di baseball, Eddie Lang.

Fu compagno di scuola di Joe Venuti, con il quale istaurò una grande amicizia e una collaborazione lavorativa, che durò gran parte della sua carriera.

Nel 1918 era già attivo come musicista professionista suonando il vilino, il banjo e la chitarra. Ammirava molto il chitarrista classico spagnolo, Segovia, e volle in seguito riadattare il testo di Rachmaninoff “Prelude in C minore” in un assolo per chitarra.

Cominciò suonando il violino nel quintetto di Bert Estlow in un ristorante di Atlantich city. Questo fu il suo primo lavoro come musicista. Suonò anche il banjo nell’orchestra di Charlie Kerr e Russ Morgan. Nel 1921 cominciò a dedicarsi maggiormente alla chitarra, scegliendola come strumento prediletto.

La musica popolare dei primi anni ’20 ed in particolare del jazz stava cambiando, ci si trovava in un periodo di transizione. Alcuni sostengono che il cambiamento, che si stava verificando in quegli anni nel campo della musica, fosse dovuto all’uso sempre maggiore della chitarra, in quanto strumento che meglio si adattava al cambiamento dei tempi e che si legava con i suoni del basso. Altri, invece, ritrovavano la causa nell’introduzione dei microfoni elettrici che permettevano una registrazione ottimale della chitarra acustica.

Proprio in questi anni Eddie comincia a prediligere la chitarra e a creare con questa nuovi modi di fare musica, tanto che quando James Sallis, scrittore del The Guitar Player, si espresse sulle cause del cambiamento musicale in quegli anni, scrisse:  “More than anything else the change resulted from the playing of Eddie Lang” (Più di ogni altra cosa, il cambiamento è dipeso dal modo di suonare di Eddie Leng).

In ogni caso, come riferisce Leonard Feather “Lang seppe acquisire uno stile unico, una finezza tonale e una delicatezza quasi da musica da camera fino allora sconosciuti nel jazz“.

In poco tempo divenne il chitarrista più ricercato in campo jazzistico.

Ottenne la sua prima scrittura nel 1912 ed esordì con il banjo e poi la chitarra nell’orchestra di Charlie Kerr (1920), un noto direttore d’orchestra di Filadelfia; la sua reputazione crebbe così rapidamente che gli Scranton Sirens lo vollero nella loro orchestra.

Fu uno dei primi musicisti bianchi ad integrarsi con quelli di colore; frequentemente si recava nei night club di Harlem dove, per suonare nelle loro band, si racconta che tingesse le mani e il volto di scuro.

Dopo aver lavorato per diverse orchestre si trasferì a Londra, passando l’anno del 1924-25.

Si trasferì poi definitivamente a New York, dove cominciò la sua carriera.

Fece parte dell’orchestra di Venuti, Adrian Rollini, Roger Wolfe Kahn e Jean Goldkette. In questi anni si dedicò anche al lavoro di studio come sileman, sia in radio, sia per la nascente industria del disco. Fu l’occasione questa per incidere una grande varietà di stili e di generi musicali.

Nel 1929 insieme al suo compagno Venuti, si unì all’orchestra di Paul Whiteman, con il quale comparve nel film The King of Jazz.

Comparve anche in un altro film, nel 1932, Big Broadcast, quando lasciò l’orchestra di Whiteman seguendo Bing Crosby, che in quel periodo si era trasferito a Hollywood.

Per un intero anno seguì Crosby nel suo lavoro suonando con lui full-time.

La vita del giovane artista, però, si spezzò improvvisamente quando morì in seguito ad una improvvisa emorragia, dopo un’operazione di tonsillectomia, alla quale si era sottoposto per curare le sue continue laringiti. Operazione suggeritagli, pare, dallo stesso Bing Crosby.

Lang era, probabilmente, affetto da emofilia, una malattia ereditaria con disturbi anche gravi della coagulazione del sangue, questo non aiutò sicuramente la buona riuscita dell’operazione, ma lo storico del jazz, Vince Giornadno, sostiene che in realtà morì a causa di una sbronza che si prese subito dopo l’operazione insieme al suo dottore.

Il contributo che Lang diede al mondo del Jazz è indiscutibile.

Il suo modo di suonare la chitarra fu innovativo e pioneristico. Joe Venuti lo definì “Il pioniere della chitarra, il più grande di tutti i tempi”.

Proprio con l’orchestra di Venuti registrò una ventina di sedute di incisione, che andarono a definire la musica jazz per piccole incisioni. Alcuni di questi brani sono stati di recente ripubblicati dalla Mosaic Records e tra i più noti ci sono Goin’ Places, Teh Wild Dog e Cheese and Crackers.

Lang registrò anche con altre orchestre e musicisti come Bix Beiderbecke, The Mound City Blue Blowers, Luis Armstong, King Oliver, Benny Goodman, Bessie Smith, Jack Teagarden, Karl Cress e molti altri. In poco tempo divenne il chitarrista più ricercato nel campo.

Insieme a Venuti, Lang creò un’associazione con l’orchestra the Goodkette, band a 14 pezzi. Insieme a questa orchestra completò diverse sessioni con Bix Beiderbecke, con il quale registrò la versione di “Singin’ the Blues”, “Clementine” e “I’m Coming Virginia” nel 1927.

In questo stesso anno registro con Red Nichols e the Five Pennies, senza mai interrompere le registrazioni con Venuti cominciate nel 1926.

Registrò anche altri dischi sotto lo pseudonimo di Blind Wille Dunn con il gruppo Blind Willie Dunn and His Gin Bottle Four.

Con questo nome registrò nel 1929 per la Okeh di New York un certo numero di brani insieme a Lonnie Johnson, chitarrista di colore eccezionalmente bravo. Il nome del gruppo deriva dal richiamare il nome di altri suonatori neri di blus, quali Blind Blake, Blind Lemon Jefferson, Blind Willie Johnson, Blind Willie McTell.

La scelta è stata pensata principalmente per una questione commerciale, si pensava che pochi afroamericani, pubblico principale dei dischi blues nel mercato detto di “race records”, avrebbero comprato un disco suonato da un bianco. Proprio per questa differenza di colore tra lui, bianco e Johnson nero, molti concerti furono annullati: il jazz, come molti altri generi musicali in America, rimaneva ancora un genere di segregazione.

La collaborazione tra i due rimase forte, in ogni caso e sulla base delle esperienze fatte, Lonnie Johnson disse di Lang che “era il miglior chitarrista che avessi mai incontrato e le registrazioni che feci con lui rimangono la mia esperienza migliore…era la persona più gradevole con cui abbia mai lavorato”.

In onore del grande musicista a Monteroduni, paese natale del padre, si svolge dal 1991 un festival Jazz, intitolato al chitarrista, che richiama artisti di fama mondiale: Eddie Leng Jazz Festival

 

Bibliografia:

Adriano Mazzoletti, Eddie Lang – Stringin’ The Blues, Pantheon Editore, Italy.

Erlewine, Michael, editor, All Music Guide To Jazz, Miller Freeman Books, 1998.

Russell, Tony, Masters of Jazz Guitar: The Story of the Players and Their Music, Balafon Books, 1999.

Sallis, James, The Guitar Players: One Instrument and Its Masters in American Music, William Morrow and Company, 1982.

 

Periodicals

Guitar Player, March 1998.

 

Sito ufficiale:

http://www.eddielang.com/el_home.html

 

SITOGRAFIA

  • https://it.wikipedia.org/wiki/Eddie_Lang

 

Storia

Il tema dell’emigrazione, antica e moderna, è complesso, articolato e – con il tempo – diventa sempre più interessante approfondirne le radici, le evoluzioni, le interrelazioni con i paesi di residenza, con la madre patria, con i paesi di provenienza dei nuovi concittadini.

I Molisani nel mondo sono tantissimi, forse molti di più di quelli stimati, circa 800.000, e nonostante abbiano stabilito nuove radici, essi continuano ad essere ancora profondamente legati alle proprie origini.

Un legame che non può fare altro che onore a chi invece è rimasto sul territorio molisano.

Arturo Giovannitti

“Il poeta dei lavoratori italiani”

Arturo Giovannitti nasce il 7 gennaio 1884 a Ripabottoni, in provincia di Campobasso, da Domenico Giovannitti e da Giannina Levante. Dopo di lui i coniugi Giovannitti avranno altri due figli .

Arturo passa la sua fanciullezza tra i libri della biblioteca paterna e  rivela un naturale talento per la letteratura e in particolare per la poesia, maturando in un ambiente familiare già dedito alle belle lettere: lo zio, fratello di sua madre era pittore, il nonno paterno scriveva libri mentre suo padre aveva vergato alcuni versi, anche il fratello Aristide lasciò alcuni scritti di natura lirica. Il giovane Arturo legge avidamente quanto custodisce la biblioteca paterna, perlopiù tomi di storia e di scienza, un patrimonio che chiederà per sé alla morte del padre, lasciando ogni altro bene ai familiari.

In Molise il suo futuro sembra già definito: all’età di circa 11 anni il padre lo iscrive al Liceo Ginnasio Mario Pagano di Campobasso, unico istituto frequentato dai figli della borghesia molisana. Durante la sua formazione scolastica saranno Carducci, Rapisardi e Stecchetti e in primis Dante i suoi modelli letterari.

Continua la lettura di Arturo Giovannitti