L’emigrazione fu trattata dai vari governi italiani in maniera non univoca e discontinua.
All’inizio il governo vide favorevolmente questo fenomeno che da una parte allontanava il pericolo di esplosioni sociali e dall’altra contribuiva, tramite le rimesse dall’estero, al riequilibrio del bilancio dello Stato.
Giulio Tesi, ambasciatore italiano a Buenos Aires, scriveva nel 1871 che l’emigrazione era un bene, che, se saputo amministrare, avrebbe potuto dare dei grossi benefici a tutti, e sintetizzava la posizione del Governo in un motto: “Lascia fare, lascia passare”.
Non mancava, però chi tra gli amministratori periferici, i Prefetti in particolare, non sottolineasse il pericolo per l’economia soprattutto del meridione rappresentato dallo spopolamento delle campagne.
Un primo intervento legislativo si ebbe nel 1888, con il Governo Crispi, con una disposizione che allineava in parte l’Italia alle politiche migratorie del resto d’Europa, riscattando l’emigrante anche dalla diffidenza quasi “poliziesca” con cui era stato guardato dallo Stato fino ad allora.
La legge, infatti, sancì per la prima volta la libertà di emigrare e riconobbe agli agenti e ai subagenti il diritto di reclutare gli emigranti.
Non prevedeva, però, alcun intervento del governo per tutelare gli emigranti stessi con provvedimenti e istituzioni di assistenza, contrariamente a quanto stabiliva la legislazione dell’epoca in Germania e in altri Stati europei.
Quando, poi, iniziarono ad essere tristemente note le reali condizioni degli emigranti all’estero vi fu un ulteriore intervento legislativo nel 1901.
Tale intervento condizionò tutta la legislazione successiva e si basava su alcuni punti importanti. Prima di tutto si vietava di fatto l’attività degli agenti, andando così a tutelare la partenza ed il viaggio stesso. Gli agenti vennero sostituiti dai vettori, ovvero dagli armatori o noleggiatori. Gli interventi assistenziali e di tutela vennero delegato ad associazioni private laiche e religiose. Si distinsero due diverse tipologie di emigrazione, una continentale ed una transoceanica. Infine si creò il Commissariato dell’Emigrazione, dipendente dal Ministero degli affari esteri ma dotato di autonomia propria. Questo organismo tecnico aveva la possibilità di da vita ad una propria legislazione e normativa ed era autonomo a livello finanziario.
Nel secondo dopoguerra l’atteggiamento dei governi italiani impegnati nella difficile ricostruzione economica e sociale del Paese fu ancora una volta differente.
Si scelse la strada dell’accordo bilaterale con i Paesi che avevano bisogno di manodopera per disciplinare ed organizzare il flusso migratorio.
Emblematica la legge varata il 19 ottobre del 1945.
Si trattava di una intesa fra il governo italiano con quello belga che si impegnava a corrispondere all’Italia per le sue acciaierie 24 quintali di carbon fossile all’anno per ogni italiano che si recava ad estrarlo nelle sue miniere.
L’esecutivo italiano ampliò l’accordo e lo sottoscrisse il 23 giugno del 1946 per favorire l’invio in Belgio di un contingente di 5.000 lavoratori.
Di fatto, però, dal 1946 al 1952 gli emigrati che prestarono la loro opera nelle miniere belghe furono ben 48.598.
Dopo questo breve excursus storico sul rapporto intercorrente tra politica e migrazione si può porre ora il proprio focus attentivo su ciò che ha riguardato più strettamente la nostra Regione.
In tempi recenti, infatti, anche la Regione Molise si è dotata di leggi specifiche in materia di emigrazione.
La Legge Regionale 12 del 1975 ha istituito la Consulta e il Fondo Regionale dell’Emigrazione. È stato successivamente disciplinato il settore degli interventi in favore dei molisani emigrati e residenti all’estero con la legge 12 del 1989.
Infine, nel 2004 a Ferrazzano è stato istituito il “Museo Regionale dell’Emigrazione – Arturo Giovannitti”.
È, inoltre, in via di approvazione la nuova Legge Regionale sull’emigrazione.
SITOGRAFIA:
- http://cronologia.leonardo.it/storia/a1880a.htm